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Il mondo sommerso dentro le carceri

di  Ilaria Onida

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La professione che svolgiamo fa tanto, e richiama la nostra attenzione sul caso di cui sto per parlarvi. C’è un mondo sotterraneo verso il quale il nostro cervello resta noncurante, ed è quello delle carceri. Tema scomodo e ingombrante, diciamolo, fin dai tempi biblici, che ci tocca da lontano, o nei rari casi in cui qualche  parente-amico entra in collisione con la giustizia e ci finisce dentro.

Provo a parlarne non come luoghi di spazi chiusi e di mura invalicabili,  ma vissuti da esseri umani a cui è doveroso dar voce. Magari siamo informati, conosciamo i numeri, il sistema,  i dati del sovraffollamento, i partiti politici che mettono in evidenza i punti più oscuri della gestione interna di molte strutture penitenziarie in Italia, ma soltanto accidentalmente ci soffermiamo a pensare ai corpi rinchiusi al di là delle sbarre come a degli uomini meritevoli di ascolto e dignità.

“Viaggio in Italia”, docu-film coraggioso e rivelatore di Fabio Cavalli sulle carceri italiane, lanciato un anno e mezzo fa alla mostra di Venezia, mi aveva colpito per lo sguardo onesto e diretto sui detenuti, e su coloro che ci lavorano ogni giorno. Gli specialisti di MEDU in Sicilia presso il carcere della città di Ragusa hanno un compito altrettanto nobile e coraggioso, che è quello di curare e far emergere le testimonianze di queste vite silenziose ancora più ai margini delle nostre società.

Medici e psicoterapeuti seguono da tempo le persone più fragili in esecuzione di pena.  Ogni martedì garantiscono  il supporto psicoterapico e psichiatrico durante i colloqui alla presenza di  mediatori culturali che svolgono un ruolo centrale per i pazienti che non conoscono la lingua del Paese che li ha condannati.

Il gruppo che riceve assistenza è variegato, di nazionalità italiana o dalle origini più disparate, europee e extraeuropee, richiede aiuto per far fronte alla crisi psicologica che manifesta per tutto l’arco di tempo della sua detenzione, in fasi più o meno acute di disagio, sofferenza e smarrimento.

Nell’offrire il nostro supporto quel che più colpisce è la solitudine dei migranti. Condizione, quella dello straniero, che li rende più soli nel mare di isolamento in cui sopravvivono tutti. Di loro si parla nei processi, tra le tavole degli avvocati d’ufficio o nelle riunioni d’equipe psicopedagogica forse, ma chi mai si sofferma a pensare al loro mondo sommerso? Ho fatto caso ai nuclei di famiglie che accedono allo sportello per la consegna di pacchi, vestiario e alimenti da far arrivare ai detenuti. Per lo più mamme con bimbi piccoli al seguito, provenienti dall’entroterra locale, oppure donne arabe o  dei Paesi dell’est, tutte lì in coda, aspettando il proprio turno per consegnare qualcosa che conforti il figlio, o il marito, o un parente all’interno della cella. Raramente un immigrato proveniente dalle rotte del Mediterraneo, magari in fuga da anni per le vie dell’Africa e dell’Asia centrale, riceve una visita, indumenti per la sua cura e per la protezione dal freddo, se non i capi che l’istituzione carceraria e qualche associazione umanitaria  ha pensato di fargli arrivare.

Nigeriani, bengalesi, siriani, magrebini, immaginiamoceli, di etnie, usi, culture e lingue diverse insieme nello stesso spazio ristretto, spesso appesi a un appello di cui non conoscono i termini e ad una sentenza della quale intuiscono soltanto il finale: la durata della detenzione che li aspetta.

Eppure dietro a ognuno di loro, a cui le nostre carceri italiane non riescono a offrire nemmeno un traduttore che chiarifichi la loro posizione, c’è un uomo. Nella maggior parte dei casi, certo, sconta la sua pena come la legge ritiene più giusto, ma rimane pur sempre Uomo. Che non ha più contatti con la famiglia. Che fa i conti con la scelta del suo viaggio e l’abbandono forzato della sua terra d’origine. Con la strada in cui è incorso e in cui si è perso, e che non trova più vicinanza, non conosce l’ equilibrio, né la linea sottile che separa il suo pensiero da un terreno sicuro ad un baratro.

Sono loro, soprattutto gli extracomunitari, una popolazione del 40% tra tutti i detenuti di Ragusa, a chiederci aiuto. Arrivano ai colloqui impauriti, spaesati, in cerca di rifugio, di spiegazioni, di conforto. Sono vittime dei loro stessi stati d’ansia, incubi, disturbi alimentari, sofferenze psicosomatiche e del panico che non è altro che l’eco di traumi pregressi della loro giovane esistenza. E non sanno riconoscerli, dominarli né affrontarli da soli, e con essi vien meno la percezione della realtà che li circonda.

Continuiamo a pensare a nuove idee di progetto che possano garantire la nostra presenza all’interno degli spazi carcerari perché decine di persone possano trovare una strada di riconciliazione col proprio mondo interiore e si interfaccino con un processo di rinascita per una più facile inclusione nella società che li accoglierà quando riotterranno la libertà.

Ilaria Onida

Coordinatrice per la Sicilia di MEDU

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