Aspettavo il tramonto come il paradiso | Medici per i Diritti Umani

Aspettavo il tramonto come il paradiso

Testimonianza scritta da Marzia, psicoterapeuta del Centro clinico Psyche “Francesca Uneddu”di MEDU a Roma.

S. è dell’Africa orientale. Nel suo paese trascorre un’infanzia caratterizzata da grandi carenze (dal cibo all’affetto materno) e da un padre rigido e autoritario.

Lo scherno dei compagni, le umiliazioni e discriminazioni a causa della sua condizione sociale, le difficoltà nell’apprendimento alla Scuola Coranica lo espongono sin da subito a una serie di maltrattamenti caratterizzati da forti vissuti di paura, impotenza e solitudine.

Cresce S., ma nella sua mente, insieme a lui, cresce anche l’idea di essere “sbagliato”, “difettato, di avere una sorta di maledizione interna per cui ogni cosa che tocca, che lo riguarda, va inevitabilmente in frantumi e come mi racconterà nei nostri incontri: “Ogni passo che faccio, proprio perché è mio, non va mai nella giusta direzione”.

Un giorno, a tutto questo, si aggiunge un evento che lo segna per sempre e lo costringe a prendere parte a un sistema punitivo che non riconosce sotto costrizione del gruppo terroristico.

Da allora ogni notte diventa intollerabile e priva di sonno. Quella intollerabile sensazione di diversità, di non appartenenza a una realtà che lo circonda e lo esclude ma che allo stesso tempo lo ingloba rendendogli difficile avere una propria idea e identità senza rischiare per questo la vita, porta S. a lasciare il suo paese a soli 16 anni e ad intraprendere da solo, come si è sempre sentito, un lungo viaggio.

Un viaggio doloroso e traumatico, difficile anche da raccontare a distanza di tempo: “mi sentivo con la morte sempre appresso”.

Così S., che ama disegnare, decide di raccontarmelo inizialmente prestandomi i suoi occhi. Osservo allora la sua penna tracciare sul foglio bianco una camionetta piena di gente e lo vedo abbassare la testa dicendo “guidavano forte, con la gente che cadeva a terra…come fosse un game!” e ancora, più in basso, lo vedo disegnare un pezzo di terra recintato e pieno di persone “messe così male che non riuscivo neanche a guardarle” e con dei piccoli barili d’acqua ai quali, mi spiega, non ci si poteva mica avvicinare. Progressivamente, nel corso dei nostri successivi colloqui, mi descrive i suoi disegni: la Libia, la prigionia, la privazione di cibo, il trafficante che gli chiede di portargli delle donne di cui poter abusare e che lo tortura al suo rifiuto, le interminabili ore passate senza acqua sotto il sole “un giorno era un anno. Pregavamo che arrivasse il tramonto, lo aspettavamo come si aspetta il paradiso”.

Grazie a questi disegni, S. ha aperto delle finestre sui suoi vissuti interiori, permettendo a me e alla mediatrice di viaggiare dentro la sua storia, tappa per tappa, a guardare tutti dallo stesso finestrino come se fossimo seduti insieme su quel treno che prende ogni mattina con quel posto accanto sempre vuoto, per arrivare a Roma, al Centro Clinico Psychè, dove impara anche a riconoscere di avere invece un posto accanto occupato da qualcuno che ha il genuino piacere di stargli vicino lungo la strada della guarigione.

Tipo di documento: News,
Progetto: Psychè