Terragiusta – Diario dalla Capitanata | Medici per i Diritti Umani

Terragiusta – Diario dalla Capitanata

Vita di un abitante del limbo

“Non posso andare avanti, ma neanche tornare indietro. Non posso andare a destra, né a sinistra. So di essere forte, ma se non posso partire da nessun punto, la mia vita non inizia mai”.

M. è un giovane ragazzo originario del Ghana che i medici e operatori della clinica mobile di Medu incontrano in un casolare diroccato tra i campi della Capitanata, dove condivide uno spazio privo di ogni condizione minima di dignità con altri circa cento giovani lavoratori impiegati nei campi per la raccolta del pomodoro. Per lo più senza un contratto o con un contratto fittizio di lavoro, almeno otto ore al giorno, per lo più a cottimo per massimizzare i guadagni finché il corpo non cede, senza busta paga, senza contributi, senza indennità di disoccupazione, senza certezza di continuità. Quasi tutti senza alternative. E’ questa mancanza di alternative di alcuni che tiene in vita il sistema agricolo italiano, permettendo a molti di acquistare pomodori a un euro al chilo, senza porsi troppe domande su chi ne stia pagando il prezzo.

Decidiamo di accompagnare M. in ospedale perché dolorante, febbricitante e con sintomi suggestivi di una peritonite. Il dolore è tale che non riesce ad esprimersi chiaramente in nessuna delle tante lingue che ama parlare. In ospedale parliamo con i medici, spieghiamo ad M. cosa accadrà nelle ore successive e restiamo disponibili per i giorni a venire. I tratti del suo volto cominciano finalmente a distendersi. Nelle settimane incontriamo M. in varie occasioni. Ci comunica, pieno di gratitudine, che il pericolo di una peritonite è scongiurato e continua a ripetere che in quel primo incontro è stato salvato, che temeva di morire, in solitudine. Più volte M. ha temuto di morire: in Libia nel 2014, durante la guerra civile, poi quando è stato rapito e accoltellato per soldi da un gruppo criminale, in seguito nei lunghi mesi in un centro di detenzione dove “le torture erano quotidiane” o durante la traversata, tratto in salvo ormai allo stremo. Poi i ripetuti dinieghi da parte della Commissione, le espulsioni, gli infiniti viaggi a tappe, nascosto perché “non avevo più nulla, oltre il mio corpo” i vani tentativi di cercare una possibilità di vita in Germania, poi in Austria: prima rimpatriato in Italia, poi detenuto in Germania. “Desideravo il carcere per avere, almeno per un po’, caldo, riposo e cibo certi”. E poi il binario morto: i campi di pomodoro della Capitanata, dove anche senza un permesso di soggiorno lavorare è possibile, a costo di sfruttamento e umiliazione. M. non soffre più per la febbre e i dolori, nè per la stanchezza del lavoro. La sua forza interiore è tale da averlo reso un esempio per gli altri abitanti dei casolari. M. non ha perso la fiducia, ma soffre di un male più ingiusto e perverso, quello che accomuna tutti gli “abitanti del limbo”, intrappolati in un circolo vizioso per cui nell’impossibilità di ottenere un regolare permesso di soggiorno, non si può cercare un lavoro in regola, una casa con delle mura, una possibilità di vita fuori dal ghetto. Ed è solo una delle innumerevoli storie che abitano, silenti e taciute, i tanti ghetti della Capitanata.

Il team di Terragiusta
FOTO Rocco Rorandelli

Tipo di documento: News,
Progetto: Terragiusta nel sud d'Italia