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Il valore della testimonianza

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di Lea Walter, psicologa del Centro Psychè “Francesca Uneddu” clinica per la salute mentale transculturale di MEDU

Il ricordo di quanto abbiamo sofferto nel passato ci è necessario come la garanzia, la testimonianza della nostra identità.
Oscar Wilde, De profundis

Questo spazio di espressione e condivisione si chiama “testimonianza” e lavorando nel centro Psyché di MEDU da quasi un anno sento che questa parola sta assumendo un senso sempre più profondo nella pratica clinica e nella mia esperienza umana. Vediamo come l’origine della parola può aiutarci a coglierne il senso profondo. Testimone deriva da terstis, in latino il terzo, ovvero né accusatore né accusato. Spesso è così che ci sentiamo nella stanza di psicoterapia con i nostri pazienti, il terzo del racconto che è lì per porgere l’orecchio e contenere vissuti spesso disgregati.

 I greci invece utilizzano un’altra parola per designare il testimone: Mártys (poi in latino Martyr) che si riferisce a un diverso soggetto produttore di testimonianza, ovvero il martire, colui che manifesta pubblicamente la propria fede. Anche se quest’ultima parola oggi arriva a noi pregna di un significato collegato alla storia delle religioni, il testimone qui è sentito come colui o colei che porta alla luce e difende un principio, dei valori, che per noi sono quelli dei diritti umani.

Il lavoro in ambito “umanitario” assume forse sempre questa doppia valenza: da una parte molto intima e vicina ai vissuti delle persone che incontriamo e dall’altra anche molto “pubblica” o più propriamente politica, in quanto diventiamo testimoni delle sofferenze e delle ingiustizie che cerchiamo di sanare, insieme a chi le ha subite.  Proprio in quanto tali, dobbiamo raccogliere queste storie e portarle alla luce con le dovute precauzioni, per cercare di cambiare, poco a poco, i contesti nei quali queste ingiustizie e violenze hanno luogo.

Tra gli incontri che ho fatto in questi mesi, ho scelto di raccontare la storia di L. perché porta alla nostra attenzione innanzitutto la situazione di tensione e violenza che vivono quotidianamente i cittadini colombiani da anni, e di cui poco si parla, poi perché può riflettere un aspetto del trauma che mi sta particolarmente a cuore: quello che Pierre Janet (1859-1947), neurologo, psicologo, filosofo e psichiatra francese, considerato il padre della psicotraumatologia, chiamò “terrain fertile”, terreno fertile. Secondo Janet infatti, l’evento traumatico che la persona vive è tanto più impattante se la persona è già fragilizzata dalla presenza di ferite o traumi pregressi o da una situazione psicofisica già compromessa.

Seguo L. da qualche mese. É una donna colombiana di 58 anni che è arrivata a Roma nel 2022. Ha raggiunto suo figlio S., venuto in Italia 10 anni fa per scappare dal clima di tensione perenne che si vive a Cali, terza città della Colombia, dove la criminalità organizzata ha creato da anni una situazione di d’illegalità diffusa che attanaglia i cittadini e dove il malgoverno e la corruzione rendono la vita quotidiana difficile, tesa e rischiosa. L. ha anche una figlia, M., da poco madre di un bambino che sta cercando di finalizzare le pratiche per andarsene negli Stati Uniti, dove vive il suo compagno. Anche lei non sopporta l’idea di far crescere un bambino in una città dove bisogna fare i conti con la paura ogni giorno.

L. ha cresciuto i suoi figli da sola, con dignità e amore. Ha sempre lavorato nell’ambito dell’educazione riuscendo a mantenere la famiglia. Negli anni la situazione nella città è andata sempre più deteriorandosi, L. mi racconta con difficoltà gli eventi di crimine e terrore che i cartelli disseminavano nel suo quartiere. Omicidi, assalti, furti in strada, richieste di pagare la “vacuna” (il pizzo) se non si voleva rimetterci la pelle, erano all’ordine del giorno. Appena diciottenne, conclusa la scuola secondaria, il primo figlio S. decide di venire in Italia per costruirsi un futuro. Arriva a Genova e, grazie alla sua tenacia, alla fatica e all’aiuto di un’organizzazione che si occupa di percorsi di integrazione dei migranti riesce a iscriversi alla facoltà di medicina e laurearsi.

L. lavora per il municipio dove si occupa di far recapitare ai cittadini delle notifiche che riguardano i servizi di educazione.  In una seduta, mi racconta un episodio, rivivendo la paura come se fosse ancora lì, in quella strada, quel giorno. Ha una pettorina che le funge da uniforme e quel tipo di “distintivo” non è per niente apprezzato in quelle zone del quartiere dove si trova. É visibilmente disorientata e nel giro di poco viene minacciata da un gruppo di ragazzi che la accerchiano, riesce a divincolarsi, scappa, corre con tutte le sue forze fino ad arrivare a casa. Salva. Quel giorno, ancora una volta, il suo senso del dovere, il mandato del lavoro e l’ennesimo vissuto di paura avevano creato un cortocircuito. Un punto di non ritorno.

Poco tempo dopo, consultandosi con i suoi figli, decide di andarsene anche lei, lasciare il paese, raggiungere S. e tentare una nuova vita. Una vita libera come mi dice spesso. In quel periodo, S. si è  trasferito a Roma per un nuovo lavoro e accoglie sua madre. Una donna forte, sensibile ma anche molto fragile. Dopo qualche tempo, L. comincia ad ambientarsi in questa città che non è la sua. Impara l’italiano e passo dopo passo diventa sempre più autonoma. É preoccupata per sua figlia e suo nipotino che le mancano tanto e che sente ogni giorno, ma finalmente, dice, “comincio a respirare”.

S. le consiglia di provare a intraprendere un percorso di sostegno psicologico presso il Centro di MEDU “Psyché” a settembre dell’anno scorso. Qualche giorno fa L. mi chiede, con un po’ di timore, se il percorso ha un termine.  

Le rispondo che il termine lo decidiamo noi e che a me sembra che stiamo procedendo bene anche grazie al lavoro integrato del team che cura la parte psico-sociale ma che la sua domanda può essere un’occasione per  rivedere insieme gli obiettivi che ci eravamo poste all’inizio dei nostri colloqui e darci un nuovo orizzonte di lavoro. L. rimane un po’ in silenzio e poi mi dice che per lei questo è uno spazio prezioso e che le  rimane una domanda nel cuore: “Quando supererò questa sensazione di paura e minaccia che mi perseguita? Anche se provo ad evitare di ripensare a quegli eventi, essi riemergono potentemente e non riesco a liberarmene.”

Le dico che la natura e la gravità degli eventi che ci colpiscono hanno un impatto enorme su di noi, ancora maggiore se quando ci capitano siamo già stati fragilizzati da altri eventi negativi, magari accaduti molto tempo prima, quando eravamo piccoli. Eventi che hanno profondamente iscritto la minaccia nella nostra memoria psico-corporea. É come lanciare una cosa pesante su una superficie già incrinata, il rischio che si rompa è molto più alto. L’effetto non dipende solo dall’evento in sé ma dalle condizioni della persona che lo vive in quel momento.

L. ascolta, con le lacrime agli occhi. Entrambe capiamo a cosa ci riferiamo. L. è  stata abusata da bambina da un suo familiare. E quella ferita profonda, sepolta ma ancora bruciante chiede di essere nuovamente ascoltata e curata. Il silenzio non guarisce. La parola può. Questo abbiamo compreso L. ed io nel luogo sicuro che è lo spazio terapeutico. Accompagnati nel dialogo, rispettando i tempi e con estrema delicatezza possiamo riscrivere la nostra storia integrando le ferite, le zone d’ombra e le luci che compongono il nostro essere. E forse, come auspica L., arrivare a riconciliarci con quelle parti offese.

“L’intervento di supporto psicologico ai rifugiati e migranti presso il centro di salute mentale transculturale Psyche di Roma è realizzato in partenariato con UNHCR Italia – Agenzia ONU per i Rifugiati

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