Terza tappa: Basilicata | Medici per i Diritti Umani

Terza tappa: Basilicata

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NELLA TERRA DI GIRASOLE

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Nella terra dei girasole
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Vulture-Alto Bradano, luglio 2014

Palazzo San Gervasio si erge come una Fortezza Bastiani sulla desolata bellezza della Lucania. Ai suoi piedi da il benvenuto ai forestieri un’altra e più moderna fortezza, un centro di identificazione ed espulsione per immigrati che le zelanti autorità promettono di riaprire quanto prima. La missione di valutazione del progetto Terragiusta ci porta all’estremo nord orientale della Basilicata tra i borghi di Venosa, Lavello e Palazzo. In queste campagne giungono ogni estate alcune migliaia di migranti seguendo il percorso del lavoro agricolo stagionale: Rosarno, Castel Volturno, Nardò, la Capitanata.

“Qui la raccolta dei pomodori è più tardiva rispetto al foggiano” ci spiega Gervasio Ungolo dell’Osservatorio Migranti della Basilicata “e il clou della stagione è dopo il quindici di agosto”. E noi arriviamo proprio dal Tavoliere del foggiano, da quel luogo che chiamandosi Borgo Libertà è diventato per contrappasso un simbolo delle condizioni di sfruttamento dei braccianti immigrati. La statale 655 è un filo nero che taglia un paesaggio in cui dominano due soli colori: il grigio azzurro di un cielo che minaccia pioggia e tutte le possibilità del giallo in una distesa nuda di pianure e colline.La strada moderna copre un tratturo, quello che un tempo era la gran via della civiltà rurale, teatro delle migrazioni stagionali dei pastori durante la transumanza dagli Abruzzi alla Puglia. E qui viene ancora naturale immaginarsi questo immenso sentiero di erbe e di pietra al posto della superstrada. Mentre ci allontaniamo dal centro abitato di Palazzo lasciamo alle nostre spalle l’altopiano dell’Alta Murgia mentre dal lato opposto domina la sagoma scura del Monte Vulture ad indicare l’occidente.

La prima tappa della nostra visita è un luogo un po’ vivo e un po’ morto. Le case diroccate del villaggio abbandonato di Boreano sorgono isolate in mezzo alla pianura, circondate da campi di grano. Al centro del vecchio abitato domina la sagoma di quella che un tempo fu la chiesa. Oggi, che la stagione dell’oro rosso non è ancora iniziata, il borgo è spettrale. Ci siamo solo noi. Ricordare la vicenda di Boreano è un modo per ripercorrere la storia contadina di queste terre. Sorto come centro agricolo negli anni cinquanta ai tempi della riforma agraria e della lotta al latifondo, destinato alle famiglie dei braccianti che in realtà non vi abitarono mai, popolato negli ultimi quindici anni dai lavoratori africani durante la stagione della raccolta del pomodoro, ghetto fatto di casolari in rovina senza luce, acqua e servizi igienici, diviene il luogo tangibile del fallimento e dell’abbandono dell’Autorità costituita ma anche il suo contrario, quello della volontà civile di dare una risposta diversa allo sfruttamento e al degrado. La scuola di Boreano diventa in questo senso l’iniziativa più simbolica e suggestiva. Da qualche estate a questa parte nella vecchia chiesa mai consacrata un gruppo di associazioni e volontari da vita insieme ai migranti ad una scuola di italiano. L’idea è talmente bella che anche adesso, in una giornata uggiosa di inizio estate, è possibile immaginare queste mura riempirsi di voci e di lingue diverse che si incontrano.

Lasciamo la solitudine di Boreano e raggiungiamo un casolare in mezzo ai campi, anch’esso diroccato ma già abitato da tanti migranti che giungono dall’Africa occidentale; dal Burkina Faso, dal Ghana, dal Mali, dalla Costa d’Avorio. I ragazzi salutano Gervasio con amicizia mentre troviamo riparo dalla pioggia nel primo baracchino sul ciglio della strada che è in realtà una sorta di macelleria informale. I pezzi di carne di pecora, tutti di piccole dimensioni, giacciono ordinati su un tavolo di legno, alcuni pronti per essere arrostiti. Il luogo in cui ci troviamo è conosciuto come La Capitale poiché oltre ad ospitare un certo numero di persone funge da punto di ritrovo per i braccianti che occupano gli altri casolari vicini. Intorno all’edifico principale, una vecchia casa colonica piuttosto malmessa, ci sono alcune baracche e rifugi costruiti con una ampia varietà di materiali di scarto: cartoni, teli di plastica, pezzi di legno, tappeti.

A pochi passi da noi la più grande di queste baracche è munita di una vecchia antenna. E’ il BAR LA pai – FIFA DUEMILLE14, come recita una grande scritta rossa al suo esterno, luogo di incontro per assistere alle partite del campionato del mondo di calcio. Poiché la pioggia aumenta veniamo invitati ad accomodarci proprio nel BAR LA pai e, con una certa curiosità,ci addentriamo dentro un piccolo oscuro varco. La baracca che ci ospita è costruita con una perizia straordinaria. Le pareti e il tetto sono dotati di un doppio strato di protezione, cartoni all’interno e plastiche all’esterno, tanto ben congegnato da mantenere l’ambiente interno perfettamente asciutto malgrado la pioggia battente. Il suolo è un morbido mosaico di vecchi tappeti. Il BAR LA pai è accogliente come il suo aspetto esteriore non può lasciar immaginare anche se tutto l’ambiente è immerso nella semioscurità. Si parla poco e non sappiamo se ciò sia dovuto al nostro ingresso, al silenzio che permea questa terra oppure al vecchio imponente televisore con tubo catodico. Purtroppo la partita della Costa d’Avorio che va in onda in quel momento se l’è sequestrata la solita pay tv e ai ragazzi non resta che un documentario sulle ombre cinesi trasmesso dal canale pubblico. E come in un gioco illusionistico i nostri occhi iniziano ad adattarsi alla scarsa luce, percepiscono uno dopo l’altro tutti i volti mimetizzati nella penombra. Ci sono almeno una ventina di persone, tutti giovani uomini, sospesi – a noi sembra – tra attesa e rassegnazione. Scambiamo quattro chiacchiere sul tempo cattivo che non permetterà di andare a lavorare nei campi per qualche giorno, su Rosarno e la Calabria da cui qualcuno di loro proviene, sulle possibilità di una squadra africana di passare il turno.

Da La Capitale parte una lunga strada sterrata, un rettifilo di miseria e dignità che percorriamo per intero. Ai suoi lati si susseguono catapecchie e casolari fatiscenti già in parte abitati dai braccianti che raccoglieranno anche quest’anno i pomodori per 25 euro al giorno, schiacciati da una piramide di capi neri e di capi bianchi.
Ma questa è anche la terra di Rocco Girasole. Lo scopriamo per caso sulla via del ritorno(1). La sua vicenda è un po’ come quella del borgo mai nato di Boreano, aiuta a capire molte cose. Contadino di Venosa, ucciso un gennaio di quarantotto anni fa dalla polizia mentre con altri braccianti, in un uno sciopero al contrario, pretendeva di non fare la fame e di poter lavorare. Ai suoi funerali un lungo corteo scorreva per le vie del paese senza una bara da seguire. Il suo corpo non c’era più; l’Autorità se lo era portato via di notte per paura che diventasse la miccia della rivolta. Quando gli spararono aveva vent’anni come i ragazzi del BAR LA pai.

Alberto, medico


NOTE

(1) Per chi fosse interessato a conoscere meglio la storia di Rocco Girasole si consiglia la visione del documentario La morte di Girasole (Film Discaunt) di Giuseppe Bellasalma, Benedetto Guadagno.


Medici per i Diritti Umani (MEDU) ha avviato a gennaio 2014 il progetto “TERRAGIUSTA. Contro lo sfruttamento dei lavoratori migranti in agricoltura” in collaborazione con l’ Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) e il Laboratorio di Teoria e Pratica dei Diritti (LTPD) del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre. Il progetto è realizzato con il supporto della Fondazione Charlemagne, di Open Society Foundations, della Fondazione con il Sud e della Fondazione Nando Peretti.


Per un maggior approfondimento si veda :

Terragiusta. Campagna contro lo sfruttamento dei lavoratori migranti in agricoltura.