La raccolta del pomodoro in Basilicata: tra lavoro grigio, caporalato e tentativi di accoglienza. | Medici per i Diritti Umani

La raccolta del pomodoro in Basilicata: tra lavoro grigio, caporalato e tentativi di accoglienza.

Rappporto Terragiusta - MEDU

Da luglio a ottobre 2014, un team di Medici per i Diritti Umani (MEDU) ha operato nell’area del Vulture-Alto Bradano prestando prima assistenza medica e orientamento socio-sanitario a 250 lavoratori immigrati provenienti per la gran parte dall’Africa subsahariana. Tra le principali malattie diagnosticate vi sono le affezioni muscolo-scheletriche, spesso legate alle condizioni estreme di lavoro. Nonostante gli sforzi messi in atto dalla Regione Basilicata attraverso l’istituzione di una Task force,  sono rimaste critiche le condizioni di vita e di lavoro degli oltre mille braccianti stranieri impiegati nella stagione della raccolta del pomodoro. A causa della tardiva apertura dei centri di accoglienza di Palazzo San Gervasio e Venosa, i migranti hanno continuato a vivere per gran parte della stagione in condizioni disastrose all’interno di  casolari abbandonati privi di acqua, elettricità e servizi igienici. I lavoratori sono in genere dotati di un regolare permesso di soggiorno e di un contratto di lavoro ma, nella maggior parte dei casi, vengono ancora ingaggiati attraverso la figura del caporale che trattiene 0,50 euro per ogni cassone di pomodori riempito dal lavoratore. La maggior parte dei migranti ha anche dichiarato di non sapere quante giornate saranno effettivamente dichiarate ai fini contributivi dal datore di lavoro italiano. In previsione della prossima stagione è indispensabile che gli interventi messi in atto dalla Regione superino la dimensione emergenziale attraverso modalità di attuazione più incisive e tempistiche più adeguate.

 

Il contesto agricolo

Nell’area del Vulture-Alto Bradano (Basilicata), decine di casolari abbandonati nelle campagne sono ripopolati ogni anno – indicativamente da luglio a settembre – da oltre un migliaio di braccianti stranieri. Si tratta di giovani lavoratori, per lo più del Burkina Faso, che giungono da diverse regioni d’Italia per cercare impiego nella raccolta del pomodoro. La storia dei flussi migratori nella zona del Vulture-Alto Bradano ha inizio nella seconda metà degli anni Ottanta, quando la raccolta del pomodoro comincia ad attrarre braccianti stranieri provenienti dal Maghreb (tunisini, marocchini, algerini). Nel successivo ventennio, si assiste alla graduale sostituzione della manodopera locale con quella straniera e sempre più lavoratori stagionali iniziano ad affollare insediamenti informali nell’area di Palazzo San Gervasio.

 
Nel 1998, a fronte di un numero sempre più consistente di lavoratori accampati in strutture abbandonate e prive di servizi, viene aperto un centro di accoglienza che avrebbe dovuto ospitare 200 persone ma che, nei fatti, darà rifugio a più di 800 migranti. Nel 2009 il centro viene chiuso per violazione delle norme igieniche e di sicurezza e i lavoratori stranieri iniziano ad occupare stagionalmente alcuni casolari abbandonati nell’area di contrada Boreano e Mulini Matinelle (Comune di Venosa). Nell’aprile 2011 il campo di accoglienza riapre sottoforma di Cai (Centro di Accoglienza e Identificazione) per accogliere i migranti della cosiddetta Emergenza Nord Africa ed è poi trasformato in Cie (Centro di Identificazione ed Espulsione), chiuso nell’estate dello stesso anno. Oggi sono ripresi i lavori di ristrutturazione della struttura grazie a tre milioni e mezzo di euro stanziati dall’allora Governo Monti.

I principali comuni interessati dalla raccolta del pomodoro sono Lavello, Palazzo San Gervasio, Montemilone e, solo in piccola parte, Venosa, dove prevale il settore vitivinicolo. Secondo i dati forniti dalla Task force istituita quest’anno dalla Regione Basilicata con l’obiettivo di migliorare le condizioni di accoglienza e di lavoro dei migranti impiegati in agricoltura, sarebbero circa 300 le aziende dedite alla produzione del pomodoro nell’anno in corso e 1.500 gli ettari dedicati a tale coltura. Tuttavia, secondo Coldiretti Potenza, è difficile stimare con precisione quanti ettari siano impiegati poiché, trattandosi di una coltivazione di breve durata e di “transizione” tra un raccolto e l’altro, molte aziende utilizzano terreni presi in affitto.

 

L’intervento di MEDU

Da luglio alla prima settimana di ottobre 2014, un team di Medici per i Diritti Umani (MEDU) ha prestato prima assistenza medica e orientamento socio-sanitario a 250 lavoratori stranieri, effettuando – tra primi e secondi accessi – 267 visite. L’ambulatorio mobile ha raggiunto la maggior parte dei casolari dislocati nelle campagne tra i Comuni di Venosa, Lavello, Palazzo San Gervasio e Montemilone. Nei due insediamenti più popolati, il primo in zona contrada Boreano (a circa 20 chilometri da Venosa) e il secondo lungo la strada Mulini Matinelle (a pochi chilometri da Palazzo San Gervasio), composti entrambi da una decina di casolari della riforma fondiaria, trovano alloggio durante la stagione della raccolta del pomodoro più di 400 persone per agglomerato. Si tratta per lo più di giovani uomini dell’età media di 31 anni, fatta eccezione per alcune donne ospitate in quattro casolari dedite ad attività di prostituzione o di preparazione dei pasti per i lavoratori.

 
In più dell’80% dei casi, i lavoratori visitati da MEDU provengono dal Burkina Faso e, in percentuali minori, da Costa d’Avorio, Sudan, Ghana, Mali, Sierra Leone, Ciad, Guinea Conakry e Tunisia. In oltre il 90% dei casi, i pazienti possedevano un regolare permesso di soggiorno. Di questi, il 48% ha dichiarato di essere in possesso di un permesso di soggiorno per protezione internazionale o motivi umanitari; il 35,5% ha un permesso di soggiorno per motivi di lavoro (autonomo o subordinato) o per attesa occupazione. È stata riscontrata, inoltre, una presenza di lavoratori con permesso per ricongiungimento familiare o per motivi familiari (7,8%) o con Carta di Soggiorno (3,9%). Dei regolarmente presenti, l’84,4% è in possesso di residenza presso un’altra regione, spesso del Nord Italia oppure in Campania (solo in due casi in Basilicata) e l’81% è in possesso inoltre della carta di identità. Si tratta dunque di una popolazione lavoratrice presente in modo regolare e stabile in Italia (il tempo medio di presenza nel nostro paese è di oltre 5 anni) e che si sposta per brevi periodi di regione in regione, seguendo le stagionalità del lavoro agricolo.

 

Lavoro: come si raccoglie tra i campi

Rapporto Terragiusta - MEDUDurante il periodo di intervento del team di MEDU è stato possibile osservare due fasi distinte delle attività lavorative nei campi: la fase di preparazione dei terreni coltivati a pomodoro (attività di zappa, pulizia del campo, etc.) da inizio luglio a metà agosto e la fase della raccolta, dalla seconda metà di agosto fino ad inizio ottobre.

 
Dei 250 lavoratori stranieri visitati da MEDU, nel primo periodo (pre-raccolta) hanno fruito dei servizi dell’ambulatorio mobile 102 persone, di cui solo 6 irregolarmente presenti. Di questi, circa il 60% ha dichiarato di lavorare in media 4,5 giorni a settimana per 7 ore e mezza al giorno. Il restante 40% era appena arrivato o ha deciso di non rispondere. I braccianti hanno riferito di essere pagati a ora, in media quasi 5 euro, per un guadagno giornaliero di circa 36 euro. Tale guadagno, tuttavia, deve considerarsi al lordo delle spese di trasporto poiché, in più della metà dei casi, i braccianti hanno dichiarato di dover raggiungere il luogo di lavoro in macchina o in furgone pagando circa 5 euro per il trasporto. Inoltre, il 64% dei lavoratori che hanno accettato di spiegare la propria situazione lavorativa, ha dichiarato di fare ricorso alla figura del caporale, spesso un connazionale[1],  il quale mette in contatto i datori di lavoro con la manodopera, organizza le squadre di braccianti e il trasporto.  La quota media che il migrante versa al caporale  risulta difficilmente  quantificabile in questa fase di pre-raccolta poiché estremamente variabile di caso in caso.  Il 45,5%, inoltre, è in possesso di un regolare contratto agricolo della durata compresa tra i 15-30 giorni e i 3 mesi. Tuttavia, più della metà di questi (il 60%) afferma di non sapere se, allo scadere del contratto, riceverà le dovute buste paga con l’equo riconoscimento delle giornate ai fini contributivi.

 
Nel secondo periodo (fase della raccolta) hanno fruito dei servizi dell’ambulatorio mobile 148 persone, di cui soli 6 irregolari. Il 61,5% di questi ha deciso di raccontare la propria situazione lavorativa agli operatori di MEDU, dichiarando di lavorare a cassone, cioè a cottimo, circa 3 giorni e mezzo a settimana, per una media di 7 ore e mezza al giorno. Infatti, elemento che determina modi e tempi di coltivazione del pomodoro in quest’area, è l’acquirente finale del prodotto: l’industria trasformatrice, che ne farà principalmente passate e pelati. Ciò che conta, quindi, non è la qualità, bensì la quantità, che in queste aree può arrivare anche a 1.000 quintali di pomodoro per ettaro di terreno. In questo caso, il guadagno medio giornaliero può essere solo stimato poiché l’importo dipende da numerose variabili, quali: il numero di persone che compongono la “squadra”, il numero di autotreni (ciascuno con 88 cassoni) previsti per la giornata di raccolta, le condizioni del terreno e delle piante. In una situazione ottimale, l’operaio riesce a riempire in un giorno in media 20 cassoni da 300 Kg ciascuno, mentre, nel caso peggiore, arriva a riempirne circa 15. Ogni cassone è pagato in media 4,3 euro, per un guadagno medio giornaliero che oscilla tra i 64,5 e gli 86 euro. Per ogni cassone riempito, tuttavia, il bracciante deve consegnare 0,50 euro al caporale, cui fa ricorso il 97,8% degli intervistati che hanno risposto allo specifico quesito. Il caporale organizza le squadre di lavoro e mette in contatto – in modo illecito e bypassando qualsiasi forma di collocamento pubblico – la manodopera con i produttori locali.

 
Dei lavoratori impegnati nella raccolta del pomodoro intervistati da MEDU, l’83,5% è in possesso di un contratto di lavoro ma, di questi, quasi il 75% non sa se e quante giornate lavorative gli verranno riconosciute a livello contributivo. Secondo Coldiretti[2], il fenomeno del lavoro nero sta diminuendo a causa dell’aumento dei controlli da parte dell’ispettorato del lavoro e per l’impatto negativo che questo fenomeno ha sui mercati europei. Sempre Coldiretti ammette come, nella maggior parte dei casi, il pagamento rimanga a cassone anche per volere degli stessi lavoratori, nonostante il Contratto Provinciale del Lavoro firmato da tutte le organizzazioni sindacali, dei datori di lavoro e dei braccianti agricoli sancisca che, “al fine di evitare lo sfruttamento dei lavoratori, soprattutto extracomunitari ed il fenomeno del caporalato”, la paga debba essere di € 39,67 giornaliere a partire dal 1 gennaio 2014 (Art. 7). Secondo le dichiarazioni dei braccianti intervistati, in nessun caso è esplicitamente impedita una pausa al lavoratore durante la giornata ma poiché nel lavoro a cottimo il guadagno dipende dal numero di cassoni riempiti a fine giornata, solo il 48.4% dei lavoratori a cassone ricorre ad una pausa durante il lavoro, a fronte del 72.1% nel caso di coloro che lavorano a ore.

 
Dal punto di vista lavorativo, pertanto, si profila una realtà complessa, per alcuni aspetti in evoluzione, con caratteristiche che in alcuni casi sono state già rilevate da MEDU nella Piana di Gioia Tauro (Calabria) o nella Piana del Sele (Campania). In Basilicata siamo, infatti, di fronte ad una popolazione di lavoratori stranieri sostanzialmente regolare e dotata, nella maggior parte dei casi, o di un permesso di soggiorno per protezione internazionale (come la maggior parte dei lavoratori in Calabria) o di un permesso di soggiorno per lavoro (come in Campania). Nella maggior parte dei casi, inoltre, il lavoratore sottoscrive un contratto di lavoro – prassi del tutto assente nella Piana di Gioia Tauro – ma non sa se gli saranno versati i contributi per le giornate di lavoro svolte. Si può quindi parlare, come nel caso della Piana del Sele, di lavoro “grigio”, formalmente regolare per la presenza di un contratto ma, nei fatti, viziato da irregolarità contributive e salariali.

 
A differenza della Piana del Sele, tuttavia, dove l’agricoltura in serra garantisce una continuità lavorativa e, di conseguenza, un progressivo miglioramento delle condizioni abitative dei lavoratori, nell’area del Vulture-Alto Bradano la breve stagionalità del pomodoro, l’incapacità del territorio di assorbire la manodopera nel lungo periodo e l’insufficienza di soluzioni di accoglienza ad hoc per il periodo della raccolta, hanno contribuito a mantenere molto precarie negli anni le condizioni di accoglienza dei lavoratori stranieri.

 
Un aspetto che distingue la raccolta del pomodoro dalle altre tipologie di raccolta prese in esame, riguarda, tuttavia, le paghe. Se in Calabria e Campania queste oscillavano tra i 25 e i 35 euro giornalieri, la retribuzione media giornaliera durante la stagione di raccolta del pomodoro in Basilicata varia – al netto della quota da versare al caporale – invece tra i 57 e i 76 euro. A fronte di questo dato, è necessario però osservare che il periodo della raccolta è molto breve – dai 30 ai 60 giorni – e le condizioni di lavoro particolarmente estenuanti. Lavorare il più possibile, in un breve lasso di tempo, per guadagnare il più possibile.

 

Le condizioni di vita

Rapporto Terragiusta - MEDUNonostante l’articolo 14 del Contratto Provinciale del Lavoro attualmente in vigore stabilisca che ai lavoratori migranti debba essere fornita “un’adeguata sistemazione abitativa per tutto il periodo della fase lavorativa”, nell’ultima stagione l’89,2% dei lavoratori visitati da MEDU ha vissuto in casolari abbandonati privi di acqua, servizi igienici ed elettricità. Nel periodo di massimo afflusso, i casolari arrivano ad ospitare fino a 50 persone e in alcuni casi, in mancanza di posti letto all’interno delle strutture fatiscenti, i braccianti utilizzano anche tende da campeggio (6.8%). Inoltre, nel 77% dei casi, il lavoratore dorme su un materasso a terra e solo nel 14% su di un letto provvisto di rete.
 
Per quanto concerne la fornitura di acqua, questa avviene presso alcune fontane che distano solitamente dai casolari da uno a cinque chilometri o attraverso un servizio auto-organizzato di distribuzione che prevede il pagamento di 0,50 euro per 20 litri di acqua. Allo stesso prezzo è possibile ricaricare il cellulare. Nel periodo di massima affluenza, che vede la presenza in tutta l’area di più di mille lavoratori stranieri stagionali, vengono auto-costruite negli insediamenti delle cucine dove i pasti costano dai 2 ai 5 euro. Solo alla fine di agosto, le istituzioni hanno istallato alcune cisterne di proprietà della Caritas in contrada Boreano, escludendo de facto dall’approvvigionamento di acqua  quel folto gruppo di braccianti (oltre la metà) che trova alloggio in altri casolari abbandonati. Le cisterne sono state rifornite grazie ad un accordo tra Regione Basilicata e Acquedotto Lucano, che ha concesso gratuitamente il prelievo dell’acqua. Un accordo arrivato, tuttavia con estremo ritardo, a stagione quasi conclusa e sospeso poche settimane dopo, in occasione dell’apertura del centro di accoglienza di Venosa.
 
Solo alcuni casolari dispongono di energia elettrica, in particolar modo, nelle baracche adibite a luoghi comuni e di socialità, i migranti ricorrono all’utilizzo di generatori. A riprova della pericolosità delle strutture, il 3 agosto di quest’anno un incendio, provocato probabilmente dal cortocircuito di un generatore, ha distrutto tre baracche e un casolare in contrada Boreano. Tale incidente è avvenuto a poche settimane dalla dichiarazione d’inagibilità con la quale, il 18 luglio, il Responsabile dell’Area Urbanistica del Comune di Venosa attribuiva ai proprietari dei casolari la responsabilità penale per eventuali danni a persone. Ad oggi, solo pochi proprietari hanno denunciato l’occupazione dei casolari e le operazioni di sgombero – in alcuni casi di demolizione – delle strutture, annunciate dalla Giunta di Venosa e dalla Task force Basilicata, non sono ancora state eseguite.

 

Le condizioni di salute

Sebbene 234 su 250 pazienti visitati (90%) siano dotati di regolare permesso di soggiorno e siano stabilmente presenti in Italia, solo il 62% di loro è in possesso della tessera sanitaria. Per quanto riguarda i lavoratori irregolarmente presenti (16), al momento della visita soltanto due di essi erano in possesso del codice STP che permette ai migranti irregolari di accedere ai servizi sanitari. Le principali patologie riscontrate durante le attività di assistenza sanitaria hanno riguardato le affezioni muscolo-scheletriche, spesso legate alle condizioni estreme di lavoro, le gastralgie da stress, da alimentazione o virali, le odontopatie e le affezioni cutanee (micosi, reazioni da punture di acari e insetti). Il 23 luglio 2014 è stato aperto presso l’ospedale di Venosa un ambulatorio per stranieri attivo un giorno alla settimana dalle 17 alle 20 in cui ha prestato servizio un team composto da un medico, un’infermiera ed un referente  amministrativo dell’ospedale. Aperto a tutti i lavoratori stranieri, indipendentemente dalla regolarità del soggiorno, l’ambulatorio ha garantito l’accesso alle cure in via temporanea anche a quei lavoratori che avevano già un medico di base in una diversa regione italiana. Un approccio, quest’ultimo, che ha permesso di superare il problema del costante ostacolo nell’accesso alla medicina di base per molti lavoratori migranti stagionali. In due mesi sono state effettuate circa 40 visite. Secondo quanto descritto dal medico dell’ambulatorio, i pazienti erano tutti uomini molto giovani – con un’età media di vent’anni – e tendenzialmente sani. Nella maggior parte dei casi i pazienti hanno riferito dolori muscolari e articolari, odontalgie di varia natura e stanchezza. La principale difficoltà riscontrata dal team ospedaliero è stata quella di far rispettare le prescrizioni e di far effettuare le visite di approfondimento.

 
Per quanto concerne i pazienti visitati da MEDU, solo uno dei lavoratori visitati ha riferito un incidente sul lavoro e in nessun altro caso è stato riscontrato l’uso di macchinari particolari. In quanto ai presidi di sicurezza, i guanti in particolare, questi sono usati dalla quasi totalità dei lavoratori. Tuttavia, come rilevato anche nelle altre regioni di intervento, sono quasi sempre i lavoratori a provvedere al loro acquisto, nonostante la legge preveda che debbano essere forniti dal datore di lavoro.

 

L’esperienza della Task force della Regione Basilicata

Per far fronte alla grave carenza di tutele e di accoglienza dei lavoratori stagionali, a luglio 2014 la Regione Basilicata ha istituito una task force, in analogia con l’esperienza avviata nello stesso periodo dalla Regione Puglia. Coordinata da un rappresentante della giunta regionale e aperta, con modalità e tempi diversi, a istituzioni[3], amministratori dei comuni interessati, Acquedotto lucano, organizzazioni di volontariato, organizzazioni sindacali e datoriali[4], la Task force ha avuto il compito di  “definire un quadro d’interventi immediati volti a garantire condizioni di vita dignitose ai lavoratori immigrati impegnati nelle attività agricole in varie aree della Basilicata[5].

 
Al fine di raggiungere tale scopo, la Task force ha individuato come prioritari due interventi. Il primo, relativo al lavoro e volto ad incidere sulle irregolarità registrate da anni sul territorio quali l’intermediazione agricola attraverso la figura dei caporali e il fenomeno del lavoro sommerso; il secondo, relativo all’accoglienza. Dopo aver individuato inizialmente quattro spazi nei comuni di Lavello, Palazzo San Gervasio, Montemilone e Venosa, per un totale di circa 800 posti letto, a stagione quasi conclusa sono state aperte due strutture: la prima, il 4 settembre 2014, nell’Ex Tabacchificio di Palazzo San Gervasio di proprietà regionale, con una capienza di circa 300 posti; la seconda a Venosa, il 19 settembre, all’interno di un terreno di proprietà privata. Si tratta, in questo secondo caso, di 21 tende dalla capienza totale di 230-250 posti. All’interno dei centri sono stati inoltre allestiti fornelli e cucine da campo in modo da dare agli ospiti la possibilità sia di preparare in maniera autonoma i pasti sia di fruire della mensa a pagamento (costo del pasto 3,5 Euro). Secondo i dati forniti dalla Task force a fine ottobre, i lavoratori ospitati presso i Centri di Venosa e Palazzo sono stati complessivamente circa 400. Entrambi i centri sono tuttavia stati chiusi: a metà ottobre Palazzo San Gervasio e ai primi di novembre Venosa. La gestione delle strutture  è stata affidata alla Croce Rossa, che opera in modo volontario, secondo quanto previsto da un regolamento, la cui versione finale non è stata resa pubblica  né condivisa con le realtà associative impegnate sul territorio e coinvolte nella Task force. In questo senso pare essere mancata un’adeguata comunicazione con tutte le organizzazioni chiamate a partecipare alla programmazione dell’accoglienza stagionale come del resto rimangono poco chiare le modalità di accesso ai centri da parte dei visitatori esterni – siano essi amici/familiari, istituzioni, legali degli ospiti -, di cui non viene fatto cenno nel regolamento di gestione.

 
In relazione alla questione lavoro, la Task force Basilicata ha adottato alcune misure volte ad affrontare le problematiche che da anni investono il lavoro bracciantile. La prima è l’introduzione di un Bollino Etico, una certificazione a cura del Dipartimento Agricoltura della Regione Basilicata, rilasciata alle aziende della filiera agricola che dimostreranno di non aver fatto ricorso al lavoro nero e di aver partecipato alle iniziative della Regione per assicurare il rispetto della legalità e della qualità del prodotto. Non sono ancora disponibili i dati relativi alle aziende che fruiranno di tale certificazione.  La seconda misura introdotta riguarda le liste di prenotazione istituite presso i Centri per l’Impiego – con delibera della Giunta Regionale n. 690/201 – da cui le aziende possono attingere i lavoratori scegliendoli in via nominale. I braccianti possono iscriversi a tali liste recandosi di persona presso i centri per l’impiego della Basilicata, attraverso un numero verde collegato al call center della Regione, via internet o grazie agli sportelli mobili delle associazioni/enti di categoria (Caritas, Cgil). “La prenotazione avrà un doppio vantaggio” – si legge in un comunicato della Regione Basilicata – “per i lavoratori, in quanto condizione per entrare nei campi di accoglienza e usufruire dei servizi (luce, corrente elettrica, acqua e servizi igienici), e per le aziende a favore delle quali si stanno prevedendo incentivi economici[6]. Secondo i dati forniti dalla Task force, le prenotazioni sono state 923 e le assunzioni 914, effettuate da 212 aziende. Sarebbe quindi un dato in crescita rispetto al 2013, quando gli occupati registrati sono stati 597 da parte di 172 aziende. Sempre secondo la Task force, l’Ispettorato del Lavoro avrebbe effettuato controlli in 27 aziende, incontrando circa 200 lavoratori, dei quali solo 8 sono risultati lavorare in nero.

 

Conclusioni

Rapporto Terragiusta - MEDUNonostante gli sforzi messi in atto dalla Regione Basilicata, rimangono estremamente precarie le condizioni di vita e di lavoro dei braccianti stranieri nell’area del Vulture-Alto Bradano.

Per quanto concerne l’accoglienza, le condizioni di vita dei lavoratori sono rimaste disastrose per buona parte della stagione di raccolta a causa della tardiva apertura dei centri di accoglienza di Palazzo San Gervasio e Venosa. I braccianti, nei fatti, hanno continuato a vivere fino a settembre inoltrato in casolari abbandonati privi di acqua, elettricità e servizi igienici. Pur riconoscendo gli sforzi messi in atto quest’anno dalla Ragione Basilicata in favore dei lavoratori stagionali, è necessario sottolineare l’estremo ritardo della programmazione e della successiva apertura delle strutture di accoglienza che ha in buona parte pregiudicato l’efficacia dell’intervento. Si auspica pertanto che venga data continuità all’esperienza della Task force affinché gli interventi messi in atto dalla Regione assumano una dimensione strutturale e non emergenziale. A questo proposito, in vista della prossima stagione, appare opportuno sia predisporre una tempistica di intervento più adeguata sia rafforzare e rendere più trasparenti le pratiche di accesso e di gestione dei centri, in un’ottica di maggiore apertura e coinvolgimento delle realtà locali. E’ infine auspicabile la messa in atto di una programmazione di lungo periodo volta al superamento delle strutture di accoglienza decentrate rispetto ai centri urbani e all’integrazione dei lavoratori all’interno delle comunità locali.

Per quanto riguarda la situazione lavorativa, ci troviamo di fronte ad una realtà complessa. I braccianti sono in genere dotati di un regolare permesso di soggiorno e di un contratto di lavoro ma, nella maggior parte dei casi, vengono ancora ingaggiati attraverso la figura del caporale che trattiene 0,50 euro per ogni cassone di pomodori riempito dal lavoratore. La maggior parte dei migranti ha anche dichiarato di non sapere quante giornate saranno effettivamente dichiarate ai fini contributivi dal datore di lavoro italiano. A fronte quindi di regolari contratti di lavoro permangono situazioni di irregolarità contributive e, soprattutto, una presenza strutturale dell’intermediazione illecita dei caporali. Nonostante i positivi sforzi messi in atto dalla Task force, è dunque  necessario leggere la crescita del numero d’iscritti e assunti tramite le liste di prenotazione, anche alla luce del meccanismo più volte denunciato dai braccianti stranieri, secondo i quali i caporali, come di consueto, raccolgono i documenti delle squadre di lavoro, li consegnano ai datori i quali, a loro volta, iscrivono i lavoratori alle liste e, contemporaneamente, li “prenotano”. Per tanto, quella che pare un’assunzione fatta attraverso le liste di prenotazione, è in realtà un’assunzione che avviene ancora attraverso la mediazione del caporale ed è formalizzata attraverso il sistema di prenotazione, senza che il sistema d’ingaggio venga intaccato né le condizioni di lavoro migliorate. Come dichiarato dalla stessa Task force, un altro passo fondamentale sarà inoltre  l’implementazione degli indici di congruità ancora inesistenti in Basilicata, i quali attraverso il  confronto degli ettari di terreno dedicati alla produzione del pomodoro, i lavoratori ingaggiati e altri indicatori  permettono di verificare il corretto versamento di tutti gli oneri contributivi ai braccianti impiegati. Rimane infine una questione aperta quella dell’introduzione, come previsto nel Contratto Provinciale del Lavoro di Foggia, di una regolamentazione del cottimo che offra garanzie uguali a tutti i lavoratori al fine di evitare dinamiche di competizione, sfruttamento ed auto-sfruttamento.

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Medici per i Diritti Umani (MEDU) ha avviato a gennaio 2014 il progetto “TERRAGIUSTA. Contro lo sfruttamento dei lavoratori migranti in agricoltura” in collaborazione con l’ Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) e il Laboratorio di Teoria e Pratica dei Diritti (LTPD) del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre. Il progetto è realizzato con il supporto della Fondazione Charlemagne, di Open Society Foundations, della Fondazione con il Sud e della Fondazione Nando Peretti.

 



[1] Il caporalato è una pratica tipica delle aree in cui non si sono sviluppati servizi che affiancano l’impresa agricola, dove la monocoltura è dominante e le organizzazioni dei lavoratori sono deboli. Oggi, in seguito alla sostituzione dei braccianti italiani con la manodopera straniera, la storica figura del caporale italiano è stata affiancata, e in parte sostituita,  dal cosiddetto  caporale etnico, un immigrato in grado di interagire con maggiore facilità con operai agricoli della medesima area di provenienza (Intervista a Gervasio Ungolo, Osservatorio Migranti Basilicata, 27 ottobre 2014).
[2] Intervista a Francesco Carbone, direttore della Federazione Provinciale Coldiretti Potenza [22.07.14].
[3] Prefetture di Potenza e Matera, Questura di Potenza, Ufficio Lavoro della Regione.
[4] Confederazione Italiana Agricoltori (Cia), Coldiretti e Confagricoltura.
[5] Comunicato stampa della Regione Basilicata del 3 giugno 2014.
[6] Comunicato stampa della Regione Basilicata del 25 giugno 2014.

Tipo di documento: Report