“Non ho scelto di partire” | Medici per i Diritti Umani

“Non ho scelto di partire”

Il primo Paese che ho raggiunto è stato l’Etiopia e lì mi sono fermato per sei mesi. Poi ho proseguito verso il Sudan, ma è molto pericoloso perché i Rashaayda rapiscono le persone e la polizia di frontiera ha l’ordine di sparare contro chi tenta di attraversare il confine. Prima le persone rapite venivano vendute in Egitto, ai beduini del Sinai, che chiedevano il riscatto telefonicamente alle famiglie, come è accaduto a me. Ora invece non si può più arrivare in Israele, quindi il percorso è cambiato. I Rashaayda rapiscono le persone al confine o nel campo profughi di Shagarab e le liberano solo se le famiglie pagano il riscatto, altrimenti le uccidono”. Così racconta S., stanco ma risoluto uomo di 28 anni, che ha raggiunto le coste della Sicilia dopo un viaggio durato quasi quattro anni, tra rapimenti, riscatti, attese e torture. Medici per i Diritti Umani (MEDU) lo ha incontrato a febbraio, presso un Centro di prima accoglienza nell’entroterra ragusano, dove da cinque mesi attendeva l’esito della sua richiesta di asilo. Come per molti migranti provenienti dal Corno d’Africa, per S. quella di lasciare il proprio Paese, non è stata una scelta, come non lo è stata per molti dei 43mila migranti arrivati via mare in Italia nel corso del 2013, di cui oltre 11.000 provenienti dalla Siria, un Paese dilaniato da una guerra civile che ha causato in tre anni oltre 100mila vittime e 2 milioni e mezzo di profughi, e quasi 10.000 dall’Eritrea, governata da più di venti anni da un feroce dittatore. Così Amnesty International descrive l’Eritrea nel rapporto del 2013 sulla situazione dei diritti umani nel mondo: “L’arruolamento militare nazionale è obbligatorio e spesso esteso a tempo indeterminato. E’ obbligatorio anche l’addestramento militare per i minori. Le reclute sono impiegate per svolgere lavori forzati. Migliaia di prigionieri di coscienza e prigionieri politici continuano ad essere detenuti arbitrariamente in condizioni spaventose. L’impiego di tortura ed altri maltrattamenti è un fenomeno diffuso. Non sono tollerati partiti politici d’opposizione, mezzi di informazione indipendenti od organizzazioni della società civile. Soltanto quattro religioni sono autorizzate dallo stato; tutte le altre sono vietate e i loro seguaci sono sottoposti ad arresti e detenzioni”. S. è partito dall’Eritrea nel 2009 dopo essere stato prelevato con la forza dalla scuola che frequentava e costretto alla leva militare a tempo indeterminato. Poi la fuga, lasciando alle spalle la madre, sottoposta a ripetute violenze da parte dei militari, tre sorelle e quattro fratelli, di cui tre costretti come lui al servizio militare. Dopo sei mesi presso il campo profughi di MAI AINI, in Etiopia, e sette giorni di cammino, S. decide di proseguire verso il Sudan, ma viene rapito al confine da uomini della tribù beduina dei Rashaayda. Durante la notte riesce a fuggire e dopo sette giorni di cammino raggiunge il campo profughi di Shagarab, in Sudan, nei pressi della città di Kassala, attraversata ogni mese da circa 3.000 profughi eritrei (UNHCR). Nel campo di Shagarab però le misure di sicurezza a tutela della popolazione accolta sono pressoché inesistenti. Tutte le testimonianze raccolte da MEDU nel mese di febbraio 2014, raccontano infatti di frequenti incursioni e rapimenti da parte dei Rashaayda, con la connivenza delle forze di sicurezza locali. Secondo le rilevazioni dell’UNHCR, nel solo 2012 sono stati registrati 551 casi di sparizione dal campo di Shagarab, su un totale di 29mila rifugiati presenti. In più di 400 casi – quasi 40 persone al mese – si sarebbe trattato di rapimenti. Ha poco più di un filo di voce e gli occhi di chi già ha visto troppo< F., 24 anni, anche lei di nazionalità eritrea e costretta ad arruolarsi nel 2010, mentre frequentava la facoltà di ingegneria ad Asmara, quando racconta di una donna scomparsa mentre andava a prendere la legna per il fuoco, lasciando un figlio di 4 anni, nato all’interno del campo o dei tanti migranti con i corpi mutilati o segnati da cicatrici ai polsi e alle caviglie, da ustioni e ferite da sigarette spente, esito delle torture subite nel Sinai. Fino al 2013 il Sinai rappresentava infatti uno snodo centrale del traffico di esseri umani che dal Corno d’Africa conduceva a Israele. Ma se fino al 2010 l’attraversamento del confine con Israele avveniva quasi senza impedimenti, dalla metà del 2010 e fino al novembre 2013 i sequestri da parte dei Rashaayda sono divenuti sistematici. Venduti a trafficanti egiziani, anche essi appartenenti a tribù di beduini, imprigionati e sottoposti ad atroci torture, i migranti venivano liberati solo in seguito al pagamento del riscatto da parte dei familiari. La famiglia di D. ha pagato 2.300 dollari nel 2009 ma dopo 6 mesi di prigionia, il figlio è stato ricondotto a Shagarab, da dove ha iniziato un nuovo viaggio, durato 2 anni. Quella di B., invece, di dollari ne ha pagati 32.000 nel 2012. Dopo la liberazione, B. viene fermato dai militari egiziani e arrestato nel tentativo di attraversare il confine con Israele. Dopo dieci mesi di detenzione presso la stazione di polizia di Al Arish, dove condivide una minuscola cella con 7 persone, B. riesce a contattare di nuovo la famiglia grazie all’intervento di un’associazione che, attraverso l’ambasciata etiope, provvede all’acquisto di un biglietto aereo per l’Etiopia. Così B. viene liberato e, dopo 3 mesi tenta di nuovo il viaggio, questa volta attraverso il Sudan e la Libia. Raggiunge l’Italia in meno di un mese questa volta, ma solo dopo aver trascorso 3 giorni ad Ajdabya, in Libia, dove in 2 case con un solo bagno erano stipate più di 4.000 persone. Così ricorda quei giorni: “Per fare pipì, dovevamo andare in dieci contemporaneamente e potevamo trattenerci solo pochi secondi. Da bere usavamo la stessa acqua che si usava per scaricare, altrimenti dovevamo comprarla. Il cibo era scarsissimo e al minimo rumore ci chiudevano in casa. Molte persone si sentivano male, ma non venivano soccorse”. Poi raggiunge Benghazi viaggiando per una settimana nel bagagliaio di una macchina e da lì Tripoli, dove viene detenuto per circa due settimane, con altri 130 eritrei. Finalmente a febbraio riesce ad imbarcarsi, con un “biglietto” da 1.600 euro e dopo 3 giorni di navigazione con non sa quanti uomini, donne, bambini, raggiunge Lampedusa.
Da quando nel gennaio 2013 Israele ha portato a termine la costruzione di una recinzione lunga 245 chilometri e alta 15 metri, sormontata da filo spinato e sorvegliata da torri di controllo che separa l’Egitto da Israele lungo il confine che corre da Rafah a Eliat e ha inasprito le politiche migratorie, il traffico di esseri umani si è spostato seguendo nuove rotte che dall’Etiopia e il Sudan conducono alla Libia, attraverso il deserto del Sahara. In Libia, le aree maggiormente interessate all’organizzazione delle partenze sono quelle intorno a Tripoli, Misurata e Bengasi dove arrivano i migranti provenienti dal Sudan, dalla Nigeria e da altri paesi del Centro Africa dopo aver raggiunto i principali snodi rappresentati dall’oasi di Kufra (nel Sud-Est della Libia) e l’area di Sebah (nel Sud-Ovest), mentre per chi proviene dal Corno d’Africa il punto di raccolta prima dell’ingresso in Libia, è la città sudanese di Khartoum.
Da gennaio ad aprile 2014 sono arrivati in Italia via mare 25mila migranti, più della metà di quelli giunti nell’intero 2013, di cui il 90 per cento partiti dalla Libia. Si tratta nella maggior parte dei casi di persone in fuga. Richiedenti asilo li chiameremo, se decideranno di restare in Italia. Semplicemente profughi o immigrati irregolari se sfuggiranno ai controlli e non lasceranno qui le loro impronte. Ad aspettarli in Italia un sistema di protezione ancora inadeguato a garantire accoglienza, tutele e diritti e di accompagnare le tante persone sopravvissute a separazioni, torture, violenze, trattamenti inumani e degradanti nel difficile percorso verso la riconquista di autonomia, fiducia e dignità.

Mariarita Peca
medici per i diritti umani

Tipo di documento: Comunicati stampa