Seconda tappa: Calabria | Medici per i Diritti Umani

Seconda tappa: Calabria

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DANKA DANKA. PIANO PIANO NELLA PIANA

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Danka Danka - MEDU

Piana di Gioia Tauro, aprile 2014

Piana di Gioia Tauro, piccoli comuni stretti intorno a frutteti di arance e mandarini, ma anche olivi, i più alti che abbia mai visto. Tantissimi sono ancora gli alberi carichi di frutti, non è sicuramente un buon segno. Tanti ancora i migranti che affollano piazze e incroci, come in una sorta di vetrina della manodopera. Qualche produttore passa con dei furgoni e carica le persone che servono per la giornata di lavoro. A volte si paga per il trasporto, altre volte no, a volte chi ti accompagna poi scende nel campo con te e si sporca con la terra, altre volte no e torna nel furgone a dormire.

Sembra, nel moderno 2014, incredibile, ma è proprio nella modernità di un paese strizzato come un’arancia dalla crisi che questi fenomeni tornano ad abitare le nostre strade e i nostri campi. Ma forse da qui non se ne sono mai andati, questa è l’impressione. In pochi si sono ribellati. E’ sempre stato così. E la crisi appare solo come un grande alibi, abitudine ormai diffusa in tutta Italia, che qui si accompagna anche all’altro grande alibi del “siamo in Calabria, una regione messa in ginocchio dalla ‘ndrangheta”. Detto questo, ogni discorso è troncato, non pare esserci appello.

Nelle menti del passante, del panaio, come della parrucchiera appare strutturata l’idea che le cose non possano andare che così; è sempre esistito, magari prima in vetrina c’erano i giovani calabresi. E adesso i giovani calabresi dove sono? Viene da chiedersi. Molti alle università del nord, molti però rimangono e sono spettatori di un fenomeno a cui sanno solamente di non voler partecipare.

Dalla vetrina della manodopera, via nei campi, sono le 8 del mattino, prima si raccoglieva, adesso è periodo di potatura. Ci sono lavoratori sulle scale, testa tra le arance, rami che t’abbracciano, a volte ti proteggono dalla cadute, altre volte le causano. Altri schiena china, altri trasportano cassette di decine di chili. Si lavora velocemente o per essere richiamato il giorno dopo al lavoro (magari senza passare quelle due ore in vetrina) altre volte perché ti pagano a cassetta. Più cassette raccogli e più guadagni. Il prezzo a cassetta suona come una condanna: 0,5 centesimi di euro una cassetta di arance, 1 euro quella di mandarini. Non c’è scampo, non c’è alternativa, il mercato è questo. Lo sfruttamento non fa prigionieri, ma solo feriti.

La stanchezza e i tanti dolori la sera non permettono di prendere sonno in quei letti improvvisati in case evanescenti, ma pur sempre rifugi; arrivano i pensieri e il sonno ancora si allontana. L’umidità e il freddo fanno poi l’altra parte. Svegliarsi stanchi, come se la notte non fosse esistita a portare ristoro a quelle ossa infrante. In molti casi si è dormito in un casolare abbandonato, come tetto dei teloni di plastica tenuti saldi da bombole del gas vuote o pneumatici di trattori a coprire i tanti buchi. Per cucina un fuoco o un fornello da campo, l’acqua per lavarsi da riscaldare, l’acqua da bere sudata in chilometri in bicicletta da fare. Mille ostacoli, ma la dignità dell’uomo spesso stupisce e non mancano i sorrisi e le risate quando torni da lavoro, non manca certo il momento del tè in compagnia e due chiacchiere.

Più problematica, e che costringe tutti ad allontanarsi dal gruppo, la telefonata al proprio paese, alla propria famiglia. Come raccontare dove si vive, come si lavora, come si viene portati nei campi, cosa si deve sopportare. Si parte con l’idea di un paese democratico, dov’è possibile lavorare e mandare quei soldi a casa che servono alla famiglia, ai figli per studiare o ai genitori per curarsi. Altre volte è solo la riscossa di un uomo, la ricerca di una vita più simile a quella che vedono in TV, a cui, è vero, in occidente si ha la possibilità, almeno in teoria, di poter aspirare. Si parla di un minimo di benessere, che allontana il concetto di sopravvivenza.

Ma spesso non è così, qui nella Piana almeno non lo è, e costringe tanti ad inventarsi una vita migliore, che si ha una casa vera, che si lavora tutti i giorni, che si vedono e si fanno tante cose. Questa versione forse aiuta tutti: qui i ragazzi ad andare avanti e le famiglie a non preoccuparsi per i propri cari. Tutto procede piano piano nella Piana di Gioia Tauro. Dove non si è abituati a percepire nessun cambiamento, non si riesce nemmeno più ad immaginare che qualcosa possa essere diverso da com’è. Tutto va a rallentatore. Danka danka, direbbe il nostro amico Lamine, il ragazzo senegalese lavoratore stagionale in agricoltura e mediatore culturale. Ma danka danka non so se sia la velocità giusta.

Serena, medico




Medici per i Diritti Umani (MEDU) ha avviato a gennaio 2014 il progetto “TERRAGIUSTA. Contro lo sfruttamento dei lavoratori migranti in agricoltura” in collaborazione con l’ Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) e il Laboratorio di Teoria e Pratica dei Diritti (LTPD) del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre. Il progetto è realizzato con il supporto della Fondazione Charlemagne, di Open Society Foundations, della Fondazione con il Sud e della Fondazione Nando Peretti.

Per un maggior approfondimento si veda :

Terragiusta. Campagna contro lo sfruttamento dei lavoratori migranti in agricoltura.
Rosarno 2014. (FOTO Testimonianza -marzo 2014) Rosarno 2014. (VIDEO Testimonianza -marzo 2014)